Giovani,
con diploma o laurea, che in Italia non hanno
futuro. Così partono, dal Varesotto o dal Salento. E
vanno all'estero a fare i camerieri, i muratori, i
lavapiatti. Proprio come un secolo fa. Ecco le loro
storie...
Berlino:
la stazione di Spandau - Francesco
Saverio Alessio, 2012 - copyleft
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Se ne vanno i figli nati negli anni
Ottanta. Se ne va la generazione concepita durante il
secondo boom economico. Il tempo in cui l'Italia si è
riscattata dal suo passato di povertà. Il decennio
ricordato per la Coppa del mondo in Spagna, la
vittoria sul terrorismo, la fine della Guerra fredda.
Partono soprattutto loro. Quelli che adesso hanno più
di vent'anni e non superano i trenta. È l'eredità
peggiore, la più odiosa che ci lasciano dieci anni
quasi ininterrotti di Berlusconi, di liberismo
sfrenato, di globalizzazione senza regole.
La nuova
emigrazione. Storie contemporanee di
valigie e delusione. «Stavo inviando l'ultimo di una
quantità incredibile di curriculum all'ennesima
azienda grafica che non si è mai presa la briga di
rispondere. In quel preciso momento», racconta Marco
Benaia, 27 anni, diploma di perito in arti grafiche e
cameriere precario a Berlino, «ho deciso che fosse
meglio andarmene».
Non è la fuga dei cervelli. Dei ricercatori che
fuori confine inseguono la loro alta qualifica. Questo
è l'esodo dei laureati e dei
diplomati che all'estero vanno a fare i muratori, i
baristi, i lavapiatti. Laureati e diplomati che nella
spietata gerarchia dei lavori di fortuna spesso
vengono all'ultimo posto dopo turchi, arabi e cinesi.
Non si parte per realizzare il proprio curriculum.
Vanno per necessità. Per disperazione. Perché dopo
anni di disoccupazione o di contratti saltuari a 300
euro al mese, non c'è alternativa. E non si fanno i
bagagli soltanto nei paesi del Sud. In tanti partono
dal Nord. Marco Benaia è cresciuto a Saronno,
provincia di Varese, la città del premier Mario Monti.
La terra dove la Lega ha costruito il suo consenso
contro gli stranieri.
Immaginate se adesso in Germania e in
Svizzera, le principali
mete dell'esodo,
qualche Umberto Bossi locale giudicasse i nostri
emigranti un pericolo per le tradizioni, un'invasione
da respingere.
Ecco le storie. Raccolte con le
stesse domande che soltanto nel 2009 " l'Espresso " aveva rivolto ai
ragazzi africani che affollavano Agadez e la rotta del
Sahara verso l'Europa. Ai coetanei che nel 2006
subivano le violenze dei caporali nei campi di
pomodoro in Puglia. Ai sopravvissuti che nel 2005 si
calpestavano nel centro di detenzione a Lampedusa.
Il vento è girato. Non soltanto per Grecia e Spagna.
Anche in Italia. E la sconfitta più amara è che ora a
quelle identiche domande rispondono i nostri figli.
Perché sei partito? Cosa stavi facendo nel momento in
cui hai deciso di andartene? Cosa ti aspetti?
È un'emigrazione meno misera e
drammatica di quella affrontata dai loro nonni. Come
Arialdo Bulfon, partito da Peonis in Friuli nel 1931 a
11 anni. Prima l'Algeria, con il padre muratore. E
dopo la guerra la Svizzera, stuccatore a Turbenthal. O
come Salvatore Cucinelli salito in Belgio da Gagliano
del Capo, Salento. E morto a 30 anni nell'incendio
della miniera di Marcinelle,
l'8 agosto 1956. Adesso si progetta l'uscita con
un occhio a Facebook. Il passaparola corre tra i post
degli amici. Sulle pagine degli espatriati, come il
blog "Italiani in Germania". E sui
siti specializzati in offerte di lavoro all'estero. Il
viaggio non dura più nottate insonni in treno. Ci sono
le compagnie low cost. Poche decine di euro e due ore
di volo. Se finalmente considerassimo l'Unione europea
un unico Stato, forse non dovremmo definirla
emigrazione. Sarebbe semplice mobilità interna.
Nessuno negli Usa chiamerebbe emigrante un ragazzo
dell'Arizona traslocato in New Jersey. Gli Stati Uniti
però parlano la stessa lingua, sventolano la stessa
bandiera, sono una nazione. Noi no. Un italiano finito
in Germania partecipa al prodotto interno lordo
tedesco. Sottrae le sue conoscenze, il diploma, la
laurea all'Italia che ha speso risorse per la sua
formazione. E l'ha lasciato senza futuro. Sono le
conseguenze delle cifre diffuse in queste settimane. I
numeri aggiornati della recessione. Un milione e mezzo
di posti di lavoro persi tra gli under 35 negli ultimi
cinque anni. Un tasso di disoccupazione del 35 per
cento tra i giovani fino ai 24 anni. L'aumento degli
italiani iscritti all'Agenzia del lavoro tedesca: dai
189 mila del 2011 ai quasi 233 mila del maggio 2012.
Un record in termini assoluti che mette la presenza
italiana in Germania davanti a Grecia, Portogallo e
Spagna.
La vita dell'emigrante nell'epoca di
Facebook sembra più facile rispetto a sessant'anni fa.
Internet aiuta a tenere i contatti, a non perdersi. Ma
dentro, nell'animo, lo strappo è altrettanto forte.
Espatriare per necessità significa come allora
archiviare le proprie ambizioni, i propri luoghi, gli
affetti. Saronno è a mezz'ora dal centro di Milano.
L'ex triangolo industriale. Da qui non si era mai
partiti. Nemmeno dopo le devastazioni della Seconda
guerra mondiale. C'erano le fabbriche da riaprire. Il
dolciario. Il tessile. La meccanica. Qui gli emigranti
una volta si fermavano. Ma peggio della guerra han
fatto le delocalizzazioni dell'ultimo decennio. Marco
Benaia a Berlino è arrivato nel gennaio 2011. Il papà
a Saronno fa l'elettricista. La mamma lavora come
colf. La sorella studia scenografia all'Accademia di
Brera. «Ho scelto la Germania», racconta Marco,
«perché sono sempre stato affascinato dalla storia
della seconda metà del '900. Ma soprattutto perché a
Berlino si respira un'aria di libertà che da altre
parti non ho trovato». La casa: «Un appartamento in
condivisione con una ragazza spagnola e una tedesca:
250 euro di affitto per una stanza, a due passi dal
centro». Aspettative: «Nonostante le difficoltà, da
Berlino non ho intenzione di andarmene». Paga:
«Nell'ultimo lavoro da cameriere, 1500 euro al mese.
La mia prima offerta, proprio come grafico», ricorda,
«la ricevo da un ragazzo turco. Colloquio in inglese.
Promessa di 500 euro al mese più 50 per ogni lavoro
portato a termine. Dopo un mese di decine di lavori
portati a termine, non vedo il becco di un quattrino.
A parte qualche spicciolo che mi viene dato per
mangiare al fast food. E quando lo faccio presente ai
miei nuovi amici stranieri, loro non sembrano affatto
sorpresi. Lavorare per i turchi? Ahah, ridono, lo
sanno tutti che non pagano». Il lavoro successivo di
Marco è in un ristorante italiano: «Aiuto cuoco. Mi
viene fatto un contratto con tanto di assicurazione
medica. Non mi sento realizzato, ma mi ritengo
fortunato. E questo mi basta per poter continuare a
lavare piatti fino all'inizio dell'estate 2011, quando
capisco che le mie conoscenze del tedesco sono
abbastanza buone per cercare altro».
È questione di settimane, continua:
«Trovo quello che fa per me. Un sito Internet appena
nato che vende abbigliamento d'alta moda. I miei due
capi sono nati nel 1985, come me. Siamo più di
quindici, italiani, spagnoli, tedeschi. E sembra che
tutto vada per il verso giusto. Fino a quando devo
fare i conti con la realtà delle start-up, aziende che
tentano di inserirsi nel mercato digitale. Noi eravamo
una start-up. Una fredda mattina di dicembre il
finanziatore del progetto, che probabilmente aveva il
fondoschiena al caldo negli Usa o in Canada, ci fa
sapere che non elargirà mai più un solo euro. Una
settimana prima di Natale ci ritroviamo disoccupati.
Si ricomincia tutto daccapo». Niente lavoro per mesi.
E siamo al 2012. «In un giorno solo invio qualcosa
come 70 curriculum. Tra i pochi che rispondono c'è un
arabo proprietario di una piccola tipografia nel
quartiere con il più alto livello di immigrati. Al
telefono mi ispira fiducia. Pochi giorni dopo inizio
di nuovo a essere me stesso. Grafico in terra
straniera, in una tipografia che pubblica un mensile
in arabo e tedesco. Dopo quasi due mesi non ho ancora
ricevuto una paga e quando lo faccio presente ai miei
nuovi amici stranieri, loro non sembrano affatto
sorpresi. Lavorare per gli arabi? Ahah, ridono ancora,
lo sanno tutti che non pagano. Mi rimanevano poco più
di cento euro in tasca. No, non ho avuto il coraggio
di chiedere soldi ai miei genitori. Anche loro fanno
fatica». Si ricomincia: «Vado a servire ai tavoli di
una vera trattoria italiana, gestita da una simpatica
famiglia di genovesi. Sfortuna vuole che questa coppia
di genovesi, dopo vent'anni, si sia stancata della
Germania e presto chiuda il ristorante. In ogni caso
non lascerò questa città».
Anche Verena Tonelli, 30 anni, laurea
in istituzioni e politiche dei diritti umani, da
Saronno è emigrata a Berlino. Fa la barista. Papà
architetto. Mamma pensionata. Fratello iscritto a
ingegneria. Abita in condivisione: «Come quando ero
studentessa a Padova. Ma senza un lavoro ben
retribuito e un conto in banca, è complicato
dimostrare di poter pagare l'affitto. Per questo ho
dovuto cambiare sette case in meno di due anni». Nel
bar di Berlino, Verena lavora con un contratto
minijob: «400 euro mensili per 10 ore a settimana. La
maggior parte di bar e ristoranti», spiega,
«preferiscono stipulare questo tipo di contratto, e
avere più dipendenti, poiché garantisce poche spese
per il datore di lavoro. Al momento della mia scelta
di lasciare l'Italia ero laureata da un anno e mezzo e
lavoravo come cameriera in un ristorante». Perché
Berlino? «La Germania non mi attirava», risponde
Verena Tonelli: «Berlino è stata una scelta alla
cieca. Non è una città ricca. Ma è ancora la città del
possibile. Dove vivere tranquillamente a basse spese,
dove si respirano libertà e apertura mentale. La
ricerca di un lavoro nel mio campo di studi è passata
in secondo piano. Ma questo non mi fa sentire di aver
fallito. No, non ho mai pensato di ritornare in
Italia». Da Saronno se n'è andato Alessandro Milani,
30 anni, laurea in scienze dei beni culturali e
master, assunto per 1500 euro al mese a Nîmes in
Francia, in una compagnia di teatro di strada: «Dovrei
occuparmi della produzione degli spettacoli. Ma
considerate le ristrette economie, mi ritrovo a fare
un po' di tutto. Dalle paghe all'amministrazione».
E come una volta si parte dal Sud.
L'8 agosto Angela Iovinelli, 24 anni, è arrivata da
Napoli a Londra in vacanza. Con lei il papà, la mamma
e il fratello, 16 anni. Cosa succede lo racconta il
padre in una lettera a "Repubblica": «È entrata in un
Internet point, ha stampato un curriculum e lo ha
consegnato alla National Gallery. Il giorno dopo ha
sostenuto un colloquio e la sua vacanza si è subito
trasformata in lavoro, essendo stata assunta in
servizio lunedì 13 agosto dalla multinazionale che
gestisce le audioguide. Increduli io e mia moglie non
sapevamo se gioire o temere di non vederla più tanto
spesso». Altra storia, Flavia Gazineo, 31 anni, di
Laino Borgo, Cosenza. Laurea in diagnostica e restauro
dei beni culturali. A lungo disoccupata nell'Italia
dell'arte. Da gennaio vive a Malta dove per mille auro
al mese sta restaurando la cattedrale di San Giovanni
alla Valletta.
In questa fuga di giovani i paesi più
piccoli, da Nord a Sud, si stanno riducendo a un mondo
di soli vecchi. Uno di questi è Gagliano del Capo.
Ultimo comune del Salento o primo d'Europa, dipende se
lo guardi da terra o dal mare: 5.365 abitanti e altri
1.577 iscritti all'Aire, l'anagrafe degli italiani
all'estero. Da gennaio sono espatriati in sette:
Austria, Svizzera e Germania. Altri 32 se ne sono
andati nel Nord Italia. Quarantasette sono morti. E
soltanto 26 sono nati. Saldo demografico negativo
anche nel 2011: 11 all'estero, 44 al Nord, 64 morti e
43 nati. E nel 2010: 14 all'estero, 28 al Nord, 44
morti e 35 nati.
Il falso mito del miracolo pugliese a
Gagliano e dintorni svanisce con la fine della
stagione turistica. Arrigo Colaci, 61 anni, autista di
pullman, emigrante rientrato, e la moglie Vittoria, 57
anni, nel giro di pochi anni hanno visto partire tutti
e tre i figli. L'ultimo è Zef, 29 anni, laurea in
scienze motorie a Urbino nel 2006. E da allora lavori
precari: insegnante a progetto nelle elementari,
allenatore di calcio, mezza giornata da barista
d'estate. Zef ha comprato un biglietto scontato, 95
euro. Volo Brindisi-Malpensa per la sera del 14
settembre. Poi in auto fino a Bellinzona, Svizzera. Un
anno fa è emigrata lì con il marito e i figli la
sorella Lucia, 30 anni, diplomata in chimica. Il primo
ad arrivare in Canton Ticino, cinque anni fa, il
fratello Rocco, 23 anni, l'unico in famiglia che non
ha finito gli studi. «Mio padre era contrario. Se non
studi, gli diceva, non vai da nessuna parte. Invece
Rocco è stato il primo a sistemarsi», commenta Zef:
«Emigrare è una presa di coscienza volontaria. A
maggio ho deciso. Faccio la stagione al bar e vado
via. Ti porta a partire la prospettiva di una
sicurezza economica. Ma anche previdenziale, ora che
per la nostra generazione in Italia la pensione non ci
sarà più. No, non lascio nessuna fidanzata. Senza
lavoro, chi la mantiene la fidanzata? I miei sono
felici che parta. Il mio sogno da bambino era rimanere
a Gagliano. E una volta, con una laurea rimanevi. Ma
negli ultimi due anni anche chi ha un titolo di studio
deve andar fuori». Zef dice che porterà con sé tre
album di fotografie: «Le foto mie da piccolo, quelle
con gli amici e la famiglia».
A Bellinzona lo aspetta un colloquio
per un posto da barista: «Dovrei anche studiare e fare
due anni di abilitazione all'insegnamento. Il mio
obiettivo è sempre insegnare ginnastica». Altri di
Gagliano li hanno presi nei cantieri. Suo fratello
Rocco, per esempio. O Fausto Profico, 24 anni, che nel
Salento lavorava in un cementificio a 28 euro al
giorno, 600 al mese. «In Svizzera si guadagna molto di
più», dice Profico, «e lo stipendio è sicuro». Rocco e
Fausto fanno gli stuccatori. Lo stesso lavoro di molti
emigranti di allora. Quando mezza Italia partiva.
Dalla Puglia al Friuli, che ancora non era il ricco
Nord-Est. Stuccatori come Arialdo Bulfon, tornato a 40
anni da Berna alla provincia di Udine. Una copia del
"Martin Eden" di Jack London e gli arnesi del mestiere
chiusi in valigia. Lo riportarono a casa in ambulanza.
A sue spese. Giusto in tempo per farlo morire nelle
braccia di sua moglie Lina che lo aspettava a Peonis.
Un lento addio, mano nella mano. Si era ammalato ai
reni, Arialdo Bulfon. E alla Svizzera non serviva più
Fabrizio Gatti per l'Espresso, 20
settembre 2012
Nuova
emigrazione: Nordest, i giovani scappano all'estero:
Veneto seconda regione per emigrazione
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