Il prof. Devoto, ha realizzato un vecchio desiderio del Senatore Luigi
Pallaro: fare una ricerca accurata sul fenomeno della emigrazione
italiana in Argentina. Il lavoro fu commissionato allo storico
accademico molto tempo prima che Luigi Pallaro fosse eletto Senatore
della Repubblica italiana.
Complimenti per il libro bibliograficamente
molto bene articolato. Questo denota la serietà dello studio. Ce lo
sintetizza nelle linee che lo caratterizzano?
Ho tentato di presentare il quadro più ampio
possibile secondo le mie conoscenze a proposito degli italiani in
Argentina. Essi arrivarono in Argentina lungo due secoli. Ho cercato
un filo di continuità tra la tensione di conservare la propria
identità di origine e la pressione molto forte della società argentina
per integrarli in quella realtà. Questa è stata una delle mie vie che,
via via, ho sviluppato. I tratti originari, in qualche
modo, non si perdono mai e poi, gli italiani in Argentina, sia
nell’800 che nel 900, hanno dovuto gestire sì un rapporto con una
società diversa, ma una società che non era molto conflittuale che, in
fin dei conti, agevolava questo processo di integrazione. Dopo, ho
spaziato tra tante realtà, dal mondo dell’imprenditoria a quello
contadino, dagli operai ai tecnici ed i professionisti.
Ha sottolineato che quella italiana in Argentina è
stata una esperienza diversa dalle altre emigrazioni.
Ho tentato di non
fare la storia dell’emigrazione, ma ho voluto inquadrare il fenomeno
in uno scenario più ampio perché una delle differenze dell’esperienza
argentina dalle altre è che quella fu una esperienza molto più vasta e
varia sotto il profilo professionale ma anche sotto il profilo
regionale. Quando noi guardiamo gli USA,
vediamo soprattutto gli italiani appartenenti a strati sociali bassi.
In Argentina, invece, è presente una società più nuova che nasce in
contemporanea con l’emigrazione. Gli emigranti non approdano, cioè, in
una società già strutturata e completa di gerarchie. Gli italiani
immessi in quella realtà ed a quei tempi, erano italiani partiti dal
loro paesino senza aver frequentato le scuole, scoprivano di essere
italiani proprio lì, in Argentina. Per questo motivo io
sostengo che è molto complesso parlare di italianità. Preferisco
parlare invece, di comunità, di microsocietà. Gli italiani erano
padroni ed operai, proprietari e locatari, proprietari terrieri e
mezzadri, di condizioni diversificate quindi. La forza del movimento
associativo degli italiani in Argentina non ha paragoni con nessuna
altra parte del mondo sia per numero di società che per capitali
sociali. Non fu l’Italia a creare banche, ma gli immigrati arricchiti,
crearono, in Argentina, delle banche. La banca d’Italia del Rio della
Plata, per esempio, che nasce nel 1876 e diventa, oggi purtroppo
non esiste più, diventa, negli anni venti, una delle più grandi banche
argentine. Questo fatto non si riscontra altrove. Fu
fondata da genovesi che, nel frattempo, si erano arricchiti col
commercio e con la navigazione.
Il sistema, oltre che importante, si rivelò
fondamentale per gestire le rimesse non è vero?
Faccio spesso
questo esempio. Lo Stato italiano, per gestire le rimesse degli
emigranti affidò ad una banca italiana, il Banco di Napoli, il compito
di aprire delle filiali in Francia, negli USA, in Canada
per evitare le truffe. Tutto questo, però, non in Argentina perché lì
era presente la
Banca d’Italia del Rio della Plata che era la
corrispondente del Banco di Napoli. Si pensi che, verso
la fine dell’800, il 40% di tutti gli imprenditori industriali, erano
italiani.
Il prof. Uckmar si è detto rammaricato per aver
evinto, dalla lettura del libro, che gli italiani in Argentina
avessero perso la loro italianità.
Abbiamo una società nella quale c’è
stata una frattura tra i figli ed i genitori. I primi presero molto
velocemente l’identità argentina prendendo le distanze dai loro genitori
che, in molti casi, non parlavano neanche l’italiano ma il dialetto.
Frequentando, poi, le scuole argentine si è fatto si che la terza
generazione abbia avuto in passato, oggi forse è un po’ diverso, un
rapporto più distaccato con i genitori. Infatti, questo stato di cose,
lasciava delle perplessità soprattutto da parte degli intellettuali
italiani. Essi non volevano inviare italiani perché temevano che
sarebbero diventati presto argentini. Per loro, era gente che l’Italia
avrebbe perso. In ogni caso non è gente che si perde perché, anche
quando si prendono le distanze, sono come i cugini, a volte i rapporti
tra cugini non sono facili ma c’è quest’aria di famiglia.
Quali miti o leggende errate sfata il libro?
Innanzitutto, ho
ammesso che non tutto fosse stato rosa e fiori. C’è stato anche
l’aspetto negativo. Ci sono stati italiani che hanno avuto successo e
quelli che hanno fallito. Ho tentato di dimostrare la complessità, a
volte, l’ambiguità dell’esperienza migratoria. Il libro
non ha una tesi forte. E’ un libro che vuole capire, narrare. In
secondo luogo ho tentato di non separare gli argentini dagli italiani:
qui gli uni e lì gli altri. Sono arrivato a sostenere che non si
può parlare di emigrazione di ritorno. In ogni caso, si tratterebbe di
emigrazione di argentini che verrebbero in Italia oggi, terza quarta
generazione. Al massimo sarebbe una emigrazione di argentini di
origine italiana, forse di passaporto italiano, ma un passaporto non
fa una identità. In Argentina, il fenomeno
dell’emigrazione, si può parafrasare ad una insalata mista dove
italiani ed argentini si nono mischiati insieme senza confondersi,
senza conflitti ma anche senza fusioni.
Si può affermare che gli italiani e gli argentini,
in virtù di queste similitudini che li caratterizzano, siano una
specie di popoli paralleli con identiche caratteristiche ecco perché
il processo di integrazione è stato più facile?
Certo, è stato più facile in virtù di più vicinanze
per esempio, nella lingua e nella cultura cattolica di base. Non si
dovevano confrontare con quanti si trovavano in posizioni più forti,
si pensi ai protestanti. Lingua, religione, comunanza di abitudini, la
vicinanza mitologica del mondo mediterraneo a quello latino, univa
rendendo semplice l’integrazione. Sembrerà, a questo
punto, strano dire che, in principio nell’800, in Argentina, fossero
più graditi e preferiti gli anglosassoni piuttosto che gli italiani.
Poi, quando sono cominciati i problemi, di identità nazionale, gli
argentini hanno ammesso che gli italiani erano da preferire perché
capaci di integrarsi più facilmente, come gli spagnoli.
Da quanto udito dai relatori alla presentazione del libro, citi una
cosa che l’ha colpita favorevolmente ed una che l’ha contrariata.
Per le cose negative
no, non lo farò perché credo che ognuno possa esprimere le proprie
idee. Uno può anche dire di non aver letto bene il libro, ma questa
resta una mia opinione e non è importante. Importante è che ci siano
dei lettori e che ci sia interesse per il libro. Dopo, l’ho anche
detto ieri (18 aprile), una volta che il libro esce, appartiene ai
lettori, non più all’autore.
intervista a cura di
Salvatore Viglia / Eureka
Giornalista
La presenza dell’Italia e degli italiani in Argentina è un
fenomeno tanto importante quanto poco visibile nelle narrazioni
della storia dei due paesi. Questa ricerca rappresenta dunque un
contributo fondamentale e inedito alla ricostruzione della
storia dell’emigrazione italiana nel mondo. E si tratta di una
ricognizione quanto mai vasta ed eterogenea, poiché ad approdare
in Argentina fu un numero ingente di persone, non semplicemente
riconducibili alla tipologia classica del migrante. Quali
affinità potevano esserci, per esempio, tra Giuseppe Militello,
un giovane siciliano emigrato con la famiglia nel secondo
dopoguerra per lavorare come tecnico alla Entel, e Agostino
Rocca, presidente dell’Iri in Italia durante il ventennio e
fondatore della Techint in Argentina? Differenze sociali
innanzitutto, ma anche cronologiche e identitarie, come nel caso
degli immigrati liguri sbarcati nel quartiere della Boca negli
anni trenta del XIX secolo, e dei molisani arrivati a Rosario
alla fine degli anni quaranta del XX. Erano persone che
provenivano da un luogo molto cambiato in questo arco di tempo:
la penisola italiana, che nel primo caso non era neppure
riunificata, nel secondo stava per convertirsi in potenza
industriale. Dunque, mentre i primi arrivati non parlavano
neppure una lingua nazionale, i secondi, passati attraverso le
grandi esperienze nazionalizzatrici della scuola pubblica e
delle due guerre mondiali, si sentivano italiani a pieno titolo.
Sono solo alcuni esempi dell’ampiezza della ricerca di Devoto,
che consente di fare luce sulle diversità e la complessità di un
paese come l’Argentina, oggi quanto mai alla ribalta.
Autore
Fernando J. Devoto è professore ordinario di
Teoria e Storia della storiografia presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires. Si occupa
da molti anni di storia dell’emigrazione italiana in America
Latina, ed è considerato una delle voci più importanti in
materia. È autore, tra l’altro, di Historia de la inmigración
en la Argentina (Buenos Aires 2003) e curatore, con P.
González Bernaldo, di Emigration politique. Une perspective
comparative (Paris 2001).
Linux
- Software
Libero