"La parola del viaggio
è schiava del vento"
Edmond Jabes
Quando sono arrivato laggiù non sapevo quasi nulla della sua storia né della sua realtà presente. 1) Eppure lì avrei incominciato da giovane e inesperto psichiatra.
La mia prima impressione fu quella di un luogo richiuso in sé stesso avvolto intorno ad un segreto invisibile, claustrale e claustrofobico. La scarsa luce del pomeriggio e la prima densa nebbia autunnale imponevano questa sensazione alla coscienza, e la inquietavano.
Il primo impatto, la prima visione riferita dalle persone che già vi lavoravano e che avrebbero condiviso con me quell'esperienza professionale, era che lì non vi sarebbe stato molto lavoro: pochi i pazienti, ordinarie le storie. Il tutto sarebbe stato ricoperto, durante l'inverno, da una superficie innevata, prima lieve e sottile, poi dura come cemento bianco.
Il Paese sembrava non aver nulla da dire ad una persona venuta dal mondo esterno, mentre indizi fuggevoli segnalavano che avevo attraversato un confine invisibile, ma netto, tra ciò che permaneva fuori e ciò che, invece, dentro questo territorio risiedeva silenzioso, contenuto da invisibili briglie. Più tardi, molto più tardi, sarebbe giunto ad evidenza un lavoro di rimozione collettiva, implacabile e tenace.
Ma che cosa tutti si sforzavano di rimuovere?
Più tardi, molto più tardi, appresi fortuitamente*, leggendo un articolo di commemorazione storica della tragedia di Mattmark, che sette vittime provenivano da questo territorio. 2)
Coinvolto emotivamente nella loro tragica sorte tutto il paese partecipò all'angoscia che non risparmiava nessuno. Le autorità, le famiglie, il clero e i politici attivarono un ponte di lutto e di solidarietà di fronte alla tragedia più importante che l'emigrazione all'estero aveva fino a quel momento provocato a carico di questa comunità.
Di questa vicenda, nel tempo in cui vi lavoravo, scrivevo e ricercavo (1982-1990) nessuno mi aveva parlato pur essendo noto il mio specifico interesse per le vicende migratorie.
Venivo mantenuto a lato di tutto questo, anche dopo anni di permanenza nel luogo, dopo aver conosciuto centinaia di casi e vicende emergenti dallo sfondo storico dell'emigrazione di massa. Immediatamente ho giustificato tale comportamento credendo di riconoscervi un modo per escludermi, in quanto membro esterno, da quella sfera intima che si cristallizza all'interno di una comunità tramortita da una tragedia collettiva.
Poi sono giunto alla convinzione che questa radicale strategia di isolamento e di repressione del dramma, fosse prevalentemente rivolta ai membri appartenenti di diritto alla comunità.
L'intollerabilità dell'evento non doveva dunque riemergere alla superficie della coscienza collettiva quando essa non aveva ancora archiviato il problema dell'emigrazione come scelta di sopravvivenza.
Pur a distanza di tempo non si poteva ancora riproporre all'attenzione delle giovani generazioni un evento ancora evidentemente dissuasivo e minaccioso, capace di coinvolgere nel sentimento della sventura non solo il destino di un individuo o di una famiglia, ma quello di un'intera popolazione.
Note
1) L'articolo tenta di descrivere il senso pluriverso di un itinerario conoscitivo costruito sulla pratica assistenziale da me svolta nel territorio di San Giovanni in Fiore (allora U.S.L. 13 oggi U.S.S.L. 5 - Regione Calabria - 30.000 abitanti). Questo luogo è storicamente famoso per aver ospitato la comunità mistica fondata da Gioacchino da Fiore, abate visionario e riformatore.
2) Nell'agosto del 1965 un ghiacciaio delle Alpi svizzere si rovesciò sui cantieri allestiti per la costruzione della diga di Mattmark, facendo strage di uomini.
* Il Dott. Inglese venne tenuto a lato della storia delle tragedie dell'emigrazione e quando scoprì della sciagura di Mattmark, comunque non era a conoscenza di quella ancora più grave di Monongah, della quale si ritornò a parlare solo all'inizio degli anni 2000.
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