Complimenti per il libro
bibliograficamente molto bene articolato. Questo
denota la serietà dello studio. Ce lo sintetizza
nelle linee che lo caratterizzano?
Ho tentato di presentare il quadro
più ampio possibile secondo le mie conoscenze a
proposito degli italiani in Argentina. Essi
arrivarono in Argentina lungo due secoli. Ho cercato
un filo di continuità tra la tensione di conservare
la propria identità di origine e la pressione molto
forte della società argentina per integrarli in
quella realtà. Questa è stata una delle mie vie che,
via via, ho sviluppato. I tratti
originari, in qualche modo, non si perdono mai e
poi, gli italiani in Argentina, sia nell’800 che nel
900, hanno dovuto gestire sì un rapporto con una
società diversa, ma una società che non era molto
conflittuale che, in fin dei conti, agevolava questo
processo di integrazione. Dopo, ho spaziato tra
tante realtà, dal mondo dell’imprenditoria a quello
contadino, dagli operai ai tecnici ed i
professionisti.
Ha sottolineato che quella
italiana in Argentina è stata una esperienza
diversa dalle altre emigrazioni.
Ho tentato di non fare la storia dell’emigrazione,
ma ho voluto inquadrare il fenomeno in uno scenario
più ampio perché una delle differenze
dell’esperienza argentina dalle altre è che quella
fu una esperienza molto più vasta e varia sotto il
profilo professionale ma anche sotto il profilo
regionale. Quando noi guardiamo gli USA, vediamo
soprattutto gli italiani appartenenti a strati
sociali bassi. In Argentina, invece, è presente una
società più nuova che nasce in contemporanea con
l’emigrazione. Gli emigranti non approdano, cioè, in
una società già strutturata e completa di gerarchie.
Gli italiani immessi in quella realtà ed a quei
tempi, erano italiani partiti dal loro paesino senza
aver frequentato le scuole, scoprivano di essere
italiani proprio lì, in Argentina. Per
questo motivo io sostengo che è molto complesso
parlare di italianità. Preferisco parlare invece, di
comunità, di microsocietà. Gli italiani erano
padroni ed operai, proprietari e locatari,
proprietari terrieri e mezzadri, di condizioni
diversificate quindi. La forza del movimento
associativo degli italiani in Argentina non ha
paragoni con nessuna altra parte del mondo sia per
numero di società che per capitali sociali. Non fu
l’Italia a creare banche, ma gli immigrati
arricchiti, crearono, in Argentina, delle banche. La
banca d’Italia del Rio della Plata, per esempio,
che nasce nel 1876 e diventa, oggi purtroppo non
esiste più, diventa, negli anni venti, una delle più
grandi banche argentine. Questo fatto non si
riscontra altrove. Fu fondata da
genovesi che, nel frattempo, si erano arricchiti col
commercio e con la navigazione.
Il sistema, oltre che
importante, si rivelò fondamentale per gestire le
rimesse non è vero?
Faccio spesso questo esempio. Lo Strato italiano,
per gestire le rimesse degli emigranti affidò ad una
banca italiana, il Banco di Napoli, il compito di
aprire delle filiali in Francia, negli USA, in
Canada per evitare le truffe. Tutto questo, però,
non in Argentina perché lì era presente la Banca
d’Italia del Rio della Plata che era la
corrispondente del Banco di Napoli. Si
pensi che, verso la fine dell’800, il 40% di tutti
gli imprenditori industriali, erano italiani.
Il prof. Uckmar si è detto
rammaricato per aver evinto, dalla lettura del
libro, che gli italiani in Argentina avessero
perso la loro italianità.
Abbiamo una società nella quale c’è stata una
frattura tra i figli ed i genitori. I primi presero
molto velocemente l’identità argentina prendendo le
distanze dai loro genitori che, in molti casi, non
parlavano neanche l’italiano ma il dialetto.
Frequentando, poi, le scuole argentine si è fatto si
che la terza generazione abbia avuto in passato,
oggi forse è un po’ diverso, un rapporto più
distaccato con i genitori. Infatti, questo stato di
cose, lasciava delle perplessità soprattutto da
parte degli intellettuali italiani. Essi non
volevano inviare italiani perché temevano che
sarebbero diventati presto argentini. Per loro, era
gente che l’Italia avrebbe perso. In ogni caso non è
gente che si perde perché, anche quando si prendono
le distanze, sono come i cugini, a volte i rapporti
tra cugini non sono facili ma c’è quest’aria di
famiglia.
Quali miti o leggende errate
sfata il libro?
Innanzitutto,
ho ammesso che non tutto fosse stato rosa e fiori.
C’è stato anche l’aspetto negativo. Ci sono stati
italiani che hanno avuto successo e quelli che hanno
fallito. Ho tentato di dimostrare la complessità, a
volte, l’ambiguità dell’esperienza migratoria.
Il libro non ha una tesi forte. E’ un libro che
vuole capire, narrare. In secondo luogo ho tentato
di non separare gli argentini dagli italiani: qui
gli uni e lì gli altri. Sono arrivato a sostenere
che non si può parlare di emigrazione di ritorno. In
ogni caso, si tratterebbe di emigrazione di
argentini che verrebbero in Italia oggi, terza
quarta generazione. Al massimo sarebbe una
emigrazione di argentini di origine italiana, forse
di passaporto italiano, ma un passaporto non fa una
identità. In Argentina, il fenomeno
dell’emigrazione, si può parafrasare ad una insalata
mista dove italiani ed argentini si nono mischiati
insieme senza confondersi, senza conflitti ma anche
senza fusioni.
Si può affermare che gli
italiani e gli argentini, in virtù di queste
similitudini che li caratterizzano, siano una
specie di popoli paralleli con identiche
caratteristiche ecco perché il processo di
integrazione è stato più facile?
Certo, è stato più facile in virtù
di più vicinanze per esempio, nella lingua e nella
cultura cattolica di base. Non si dovevano
confrontare con quanti si trovavano in posizioni più
forti, si pensi ai protestanti. Lingua, religione,
comunanza di abitudini, la vicinanza mitologica del
mondo mediterraneo a quello latino, univa rendendo
semplice l’integrazione. Sembrerà, a
questo punto, strano dire che, in principio
nell’800, in Argentina, fossero più graditi e
preferiti gli anglosassoni piuttosto che gli
italiani. Poi, quando sono cominciati i problemi, di
identità nazionale, gli argentini hanno ammesso che
gli italiani erano da preferire perché capaci di
integrarsi più facilmente, come gli spagnoli.
Da quando udito dai relatori
alla presentazione del libro, citi una cosa che
l’ha colpita favorevolmente ed una che l’ha
contrariata.
Per le cose
negative no, non lo farò perché credo che ognuno
possa esprimere le proprie idee. Uno può anche
dire di non aver letto bene il libro, ma questa
resta una mia opinione e non è importante.
Importante è che ci siano dei lettori e che ci sia
interesse per il libro. Dopo, l’ho anche detto
ieri (18 aprile), una volta che il libro esce,
appartiene ai lettori, non più all’autore.
intervista a cura di
Salvatore
Viglia / Eureka
Giornalista
La nave: una storia di
emigrazione in Argentina
Gli
emigrati italiani in Argentina sono tanti, e di
conseguenza tante sono le storie. Tutte
queste persone, comunque, sembrano avere provato più
o meno le stesse emozioni, e sperimentato le stesse
illusioni e delusioni quando l´Eugenio C arrivò nel
porto di Buenos
Aires...
A raccontare questa
storia sono io, la figlia di Germana Fabbri, che è
originaria di Sogliano sul Rubicone, provincia di
Forlì. Quando lei a quindici anni, assieme a due
sorelle più piccole e alla loro mamma, cioè mia
nonna Dalmina, è dovuta partire dal suo paese, tanti
erano i dubbi e allo stesso tempo le speranze
riguardo a un lontano paese sconosciuto del Sud
America. La decisione era stata presa da mio nonno
Claudio qualche anno prima. Il dopoguerra era
difficile e anche la guerra non era stata facile,
con tre figlie piccole da allevare. Tutto sommato
sembrava che l’orizzonte promettente si trovasse
oltre l’Italia. Storie di emigrati precedenti
confermavano questa idea, come pure i convegni tra
gli Stati favorevoli agli immigranti, quale quello
del presidente Perón, che permetteva di unire i
contributi lavorativi italiani a quelli da versare
in futuro in Argentina, in modo che i primi non
venissero persi. L’America era tutta da costruire e
le promesse erano grandi. Fu così che nonno Fabbri
partì per l´Argentina e dopo qualche tempo chiamò il
resto della famiglia a raggiungerlo.
fotografia -
riferimento:
http://www.regione.emilia-romagna.it/
La nave sembrava
grandiosa e imponente al porto di Genova. I bagagli
erano tanti... appena sufficienti però per
incominciare una nuova vita oltre l’oceano. Mia
madre portava addosso un’acquamarina che le aveva
regalato il suo ragazzo come ricordo. Ancora oggi la
porta come ciondolo!
Germana, che allora aveva quindici anni, non
dimenticherà mai la fermata in Brasile. Dopo anni di
scarsità e disagi, trovarono tante banane! Gialle,
grandi, caschi e caschi di banane che non finivano
mai!
Finalmente arrivarono al porto di Buenos
Aires. La prima emozione provata è
stata la delusione. Il paesaggio sembrava troppo
piatto, con l’acqua "color leone" (caratteristica
del fiume Rio de la Plata, che porta giù terra e
sabbia nel suo percorso), e la città sembrava non
avere niente di gradevole alla vista, per l´occhio
abituato alle città italiane. Man mano, però, la
prima sensazione sarebbe stata superata da altre
migliori.
Tempo fa parlavo con un’altra immigrata italiana in
Argentina. Mi diceva che l’immagine iniziale del
porto è rimasta scolpita lì nella sua mente per
sempre... forse questo è il ricordo comune
nell'esperienza di emigrare.
Romina Rosso - Buenos Aires - Argentina