Agli inizi degli anni cinquanta, nel
clima psicologico della guerra fredda, l’Occidente scopriva
la categoria sociologica americana del living border, il
confine “vivente” che separa la Civiltà, storicamente
stabile e determinata, dal mondo misterioso degli altri, da
cui può emergere all'improvviso una massa di invasori
(Europa, frontiera viva, in «Civitas», maggio 1951).
Da allora la figura terrorizzante dello
straniero, l’invasore-oltre-confine, non ha smesso di
alimentare nell’immaginario inconscio degli occidentali la
paura ancestrale dello scontro di civiltà come competizione
decisiva per l’accaparramento delle risorse del pianeta. In
questo scontro di civiltà l’Europa dovrebbe difendere
l’impenetrabilità dei suoi confini dall’assalto di 700 milioni
di poveri che brulicano fuori dal continente e, possibilmente,
esportare militarmente la sua democrazia nella speranza che
ciò possa risolvere nel Terzo Mondo le cause remote della
sottoalimentazione e dell’instabilità politica.
La grande paura, risvegliata dalla prossimità
geografica del “confine vivente” del Canale di Sicilia, ha
dettato negli ultimi anni le leggi italiane sull’immigrazione
e ha scritto pagine dolorose per la memoria e la coscienza
civile del nostro paese.
Ci è stato spiegato che le leggi 189/2002
"Bossi-Fini" e 94/2009
“pacchetto-sicurezza Maroni” sono normative
europee, dotate di quell’incisività ed efficacia che Bruxelles
chiede all’Italia in ragione della sua collocazione
geografica, ultima frontiera mediterranea dell’Unione e per
questo destinazione naturale degli sbarchi di massa fomentati
da una rete di spietati trafficanti di esseri umani.
Di fronte all’enormità della tragedia
lampedusana del 3 ottobre sarebbe invece opportuno ristabilire
i veri termini della questione: il traffico illegale
dei migranti non è causa e giustificazione delle politiche
repressive europee ma, in parte, una sua conseguenza.
E in questo quadro la legislazione italiana degli ultimi non
ha apportato alcuna soluzione effettiva e praticabile ma solo
contributo ad aggravare la situazione disumanizzando la
condizione del migrante.
Il problema degli sbarchi lungo rotte
insicure e con modalità di trasporto altamente pericolose
inizia vent’anni fa a seguito dell’accordo di Schengen, che
istituiva procedure rigidissime d’ingresso alle frontiere
esterne dello spazio comunitario. La repressione della libertà
di movimento costringe i migranti ad aggirare i controlli
rivolgendosi al contrabbando e al traffico illecito.
L’impossibilità di ottenere dalle ambasciate europee un visto
con la stessa semplicità dei cittadini occidentali, seguendo
quindi i canali legali, li obbliga a pagare migliaia di euro
agli scafisti criminali. Dal 1988 sono 19.142 i morti fra
coloro che tentano di espugnare la fortezza Europa (cifra
aggiornata al 3 ottobre 2013).
In questo contesto la legislazione italiana
(il Tuimm, Testo unico sull'immigrazione del 25 luglio 1998,
n. 286, novellato appunto dalla “Bossi-Fini” e dalla legge
“Maroni”) si caratterizza per una particolare durezza
repressiva, in primo luogo relativamente alla pratica dei
respingimenti in mare.
La
Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio
marittimo del 27 aprile 1979 (in Italia L.
3 aprile 1989, n. 147) dispone che, in caso
di pericolo di migranti in navigazione, il paese responsabile
della zona di soccorso debba condurli sul proprio territorio
al fine di consentire loro la presentazione della domanda di
asilo, accoglibile in presenza del fondato timore di
persecuzioni, violenze o trattamenti inumani e degradanti nel
paese di origine (art. 33 della Convenzione di Ginevra del
1951, in Italia l. 722/54, art. 18 della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione europea e art. 19 Tuimm).
La prassi dei respingimenti collettivi in
mare, in attuazione degli accordi bilaterali dell’Italia con i
paesi di provenienza (come il trattato italo-libico del
30.8.2008), priva al contrario i migranti della possibilità di
far valere le proprie ragioni davanti a un'autorità
competente, ancora prima che sia eseguito l’accertamento della
provenienza, dello stato di salute o della eventuale minore
età (cfr. sentenza "Hirsi e altri contro Italia" del 23
febbraio 2012 della Corte europea dei diritti dell'uomo di
Strasburgo). I profughi vengono anzi denunciati e trattenuti
nei Centri di identificazione ed espulsione, nonostante che il
«Protocollo sul contrabbando di migranti», annesso alla
Convenzione di Palermo contro la criminalità organizzata
transnazionale del dicembre 2000, non consenta il
perseguimento penale dei migranti, anche qualora gli stessi
concorrano volontariamente alla realizzazione dell'ingresso
clandestino. Sotto questo punto di vista il reato di
clandestinità (artt. 10 bis e 14 Tuimm) contrasta
anche con la Direttiva n. 2008/115/CE dell’Unione Europea,
nota come “Direttiva rimpatri”, che impone il
«principio di proporzionalità», e dunque la non eccedenza
nell’uso della forza «nel debito rispetto della dignità e
dell’integrità fisica» dello straniero, e la sussistenza del
riscontro oggettivo di un pericolo per l’ordine pubblico, la
pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale.
Ma in Italia la pena detentiva colpisce il
cittadino di un paese terzo per il semplice fatto del
permanere sul territorio nazionale dopo la scadenza di un
ordine notificato di rimpatrio a seguito di una sopraggiunta
irregolarità (per es. la perdita del posto di lavoro e la
difficoltà del rinnovo del permesso di soggiorno),
indipendentemente da qualunque verifica della pericolosità
sociale del soggetto.
E la Bossi-Fini
ha precarizzato la condizione giuridica dello straniero fino a
renderne inevitabile il declassamento nella posizione
dell’irregolarità. La trappola legislativa ha deliberatamente
ridotto il periodo minimo concesso al lavoratore straniero di
iscrizione nelle liste di collocamento, abrogato la norma
sulla reiterazione automatica delle quote di ingresso previste
per l’anno precedente e soppresso il cd. sponsor, ossia la
prestazione di garanzia per l’accesso al lavoro.
E tutto ciò a cosa è servito? A
intasare le carceri (già sovraffollate); allungare i tempi
della giustizia civile e penale; distogliere tempo, uomini e
risorse dal perseguimento dei veri criminali.
Nessun effetto dissuasivo sugli
sbarchi, nessun risparmio per lo Stato italiano.
La riduzione del fenomeno migratorio al solo
aspetto dell’ordine pubblico, secondo le rozze semplificazioni
della demagogia populista, azzera completamente ogni
valutazione dell’emigrazione
come ricchezza potenziale, in termini di contributo attivo al
saldo demografico, di risposta alla domanda lavorativa in
settori asfittici per carenza di manodopera, di apporto
culturale a una società italiana povera di stimoli. Sotto
questo profilo non sarebbe inutile tornare allo spirito della
vecchia legge
28.2.1990, n. 39 "Martelli", uno strumento
operativo sicuramente obsoleto e inadeguato rispetto all’oggi,
ma con una ratio nondimeno più attuale e innovativa di quella
“poliziesca” che ha caratterizzato i provvedimenti successivi.
La legge Martelli, pur introducendo per la prima volta pene e
sanzioni per gli immigrati socialmente pericolosi o
clandestini, aggravate dalla circostanza del concorso per
delinquere, mirava alla regolamentazione dell’incremento della
corrente migratoria attraverso la programmazione statale dei
flussi di ingresso in considerazione delle esigenze produttive
e occupazionali del Paese e delle disponibilità finanziarie
per l’accoglienza. Un approccio, questo, sicuramente
lungimirante, visto che la popolazione straniera oggi
residente in Italia produce l’ 11-12% del pil (un valore
attorno ai 165 miliardi di euro), versa circa 6 miliardi di
euro al fisco e 5 miliardi di euro di contributi all’Inps (che
senza andrebbe in default).
Si obietta che questa stabilizzazione è
impossibile in presenza dei grandi numeri degli esodi africani
che passano per la porta di Lampedusa.
Ma la realtà dei fatti è molto diversa.
La sanatoria italiana ha interessato
quest’anno 77 mila stranieri (ma sono 300/400 mila quelli
ancora regolarizzabili per legge), mentre dal mare sono
arrivate meno di 10mila persone, la maggiore parte delle quali
diretta verso altri paesi europei. È l’effetto sbarco dal
gommone che amplifica a dismisura la percezione collettiva
dell’invasione.
Si obbietta ancora che si dovrebbe spiegare
ai profughi che il miraggio di un impossibile benessere li
trascina verso la prospettiva sicura di una vita di
accattonaggio che non vale il pericolo dell’avventura in mare.
È il senso comune di una parte dell’opinione
pubblica, forte di quella “banalità del male” che non ammette
il dubbio, facile, rassicurante, assolutorio.
Davanti ai pregiudizi dissimulati dietro la
commiserazione ipocrita della povertà del mendicante africano
che avrebbe fatto meglio a restare a casa propria è sempre
difficile argomentare con i dati di fatto.
È arduo spiegare come torture, violazioni dei
diritti umani e condizioni di lavoro
forzato nei siti minerari dell’Eritrea del
dittatore Isaias
Afewerki siano un stimolo doloroso più che
sufficiente per intraprendere una fuga. Che la povertà delle
zone rurali dell’Africa subsahariana o del Sahel non ha
paragoni con il degrado delle strade delle metropoli europee
(la Fao attesta una generale diminuzione della capacità
produttiva delle terre coltivate in Africa, in un contesto di
pressione demografica che si traduce nella previsione, per i
prossimi decenni, di una crescita della domanda alimentare 70
% superiore a quello del 2009; rapporto del 28 novembre 2011).
Infine è ancora più difficile far comprendere che nessuno
desidera condannare i profughi del Terzo mondo a una vita di
stenti e di accattonaggio nell’esilio dell’Europa avara e
chiusa della Crisi.
Ma resta pure sempre il fatto
incontrovertibile che dalla permanenza in Europa, sia pure
stentata, derivano le rimesse di denaro per le famiglie
rimaste nei paesi di provenienza; rimesse che costituiscono un
fattore basilare di sopravvivenza e di crescita per le
economie in via di sviluppo. Ad esempio la quota pro-capite
delle rimesse inviate dai senegalesi è 3030 euro ciascuno e
sostiene circa 348.621 loro connazionali in patria (dati della
Fondazione Leone Moressa).
È noto come Papa Francesco abbia invocato a
Lampedusa l’8 luglio scorso l’assunzione di precise
responsabilità individuali e collettive che spezzino il
silenzio complice di un’«indifferenza globalizzata».
Un monito che interpella tutti, ma che
risuona più forte nella coscienza dei cristiani. Tornano alla
mente le parole profetiche di un’omelia di Giovanbattista
Montini davanti ai convenuti del meeting Cattolici e vita
internazionale (3-23 luglio 1952). Il futuro Papa Paolo VI
denunciava con chiarezza il carattere irrazionale, violento e
profondamente anticristiano del rifiuto e della
discriminazione dei popoli non europei: «Questa carità alla
quale il cristianesimo ci ha educato, facendocela scoprire
prima nella famiglia, poi nella città, poi nella Patria, non
sarebbe sentimento cristiano se a questi confini si fermasse,
senza estendersi ai popoli che ci sono più vicini, per via via
allargarsi fino a comprenderli tutti. […] Il Vangelo dice:
“ama il tuo prossimo”; abbiamo assistito invece ad un amore
del più lontano [le potenze imperialiste] che si è risolto in
un accordo per la mortificazione e l’oppressione del più
vicino. Molti popoli fra loro lontani hanno consumato questo
peccato contro il Vangelo. Dobbiamo muoverci secondo la
parola».
Marialuisa
Lucia Sergio
LEGGE
SULL’IMMIGRAZIONE
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